Nella nostra infermità c’è il seme della gioia! Affannati e angosciati non riusciamo a chiedere ciò che davvero fa per noi. Pensiamo di dover guarire da un male. E invece c’è un’altra malattia che si nasconde nel fondo del nostro spirito. E che forse sta “accovacciata davanti la nostra porta”: il peccato.

Quanta fatica si fa nel riconoscersi amati. Quanta luce che possediamo si perde dietro le tenebre dell’amarezza e dell’angoscia dei nostri pensieri, che ruotano sempre nella stessa direzione. Nella direzione di vite che non sanno, non riconoscono di essere “benedette”, ma si dipingono – precludendosi la gioia – come “maledette”.
Non ci viene forse detto: “Dio vuole che tutti gli uomini siano salvi” (cfr. 1Tm 2,4) e ancora: “Siate santi come io sono santo” (cfr. 1Pt 1,16)? E si potrebbe continuare a rintracciare nella Parola di Dio tutte le sillabe di salvezza che il Padre ha trascritto per ciascuno di noi.
Noi però pretendiamo una salvezza fabbricata sui nostri canoni, una guarigione pensata su misura. Ma non per essere santi. Solo per essere sempre più efficienti e superiori agli altri. Dio invece sconvolge i nostri canoni, ci invita a cercare il suo volto, la sua volontà. E a rintracciare i suoi pensieri per entrare nella vita divina, nella comunione con Lui. E ricevere in eredità non tanto la vita eterna, ma, già ora, “la vita dell’Eterno”.


La Parola di Dio ascoltata in questa IV domenica di Quaresima (Lc 15,11-32) ha messo davanti ai nostri occhi che è necessario riscoprire la paternità amante di Dio. Per riscoprirci figli bisognosi del Padre. Dio non ci mette davanti alla nostra miseria per rimproverarci. Ma per accorgerci che siamo creature affamate e assetate delle cose che stanno nella sua casa.
Il Vangelo ci ha mostrato la figura di un figlio che sceglie di allontanarsi dalla casa del Padre. Così ha commentato p. Santo nell'omelia: «Siamo liberi anche di uscire dalla casa, cioè dal cuore del Padre». Sì. Dio non ci trattiene. Ma neanche ci abbandona. Il figlio va via, ma il padre nel suo cuore continua a pensarlo, ad amarlo. Sta sull’uscio ad attendere il suo ritorno. «Dio non si impone, ma si propone, e ci dà l’idea di cosa sia un amore non astratto ma vero, reale». A tal punto che tra qualche settimana lo contempleremo mentre porta su di sé il peso dei nostri peccati.


Questo Dio che è misericordia infinita si appella al nostro cuore e dice: «Non guardare se hai rovinato tutto, se hai commesso peccati gravi. Ti prego, torna a casa». Cosa significa tornare a casa? «Significa trovare sempre le braccia amorose di Dio-Papà, che ti accoglie, ti perdona, ti spalanca il cuore».
Ma c’è ancora un’altra domanda, a cui padre Santo con forza ha risposto: «Come ricevere questo amore immenso del Padre? Soprattutto attraverso il sacramento della Riconciliazione». Abbiamo bisogno della Chiesa, dei Sacramenti per riscoprirci amati! Il nostro fallimento e la nostra miseria, confessati, ci porteranno tra le braccia del Padre: «Quando ci inginocchiamo dinanzi a un povero prete, e lui alza la mano per assolverci, in quel momento avviene una nuova creazione, un nuovo battesimo. Dio ci rigenera a vita nuova!». Stupiamoci allora, pensando a quanto è grande l’amore di Dio per noi!
C’è però un’altra figura. Quella del figlio maggiore. Che resta dentro casa, si dimostra obbediente e giusto. Questo figlio protesta, non vuole far festa. Anzi, dimostra che il peccato del fratello è per lui motivo di gioia. Ma chi rappresenta questo fratello maggiore? «Coloro che stanno nella Chiesa ma non sono costruttori di pace. Coltivano la maldicenza, il giudizio, la falsità. Il cuore di queste persone è morto, non è un cuore di primavera, non è un cuore pasquale. È un cuore che non dà frutti. Perché avere fede significa amare, partorire il bene, generare vita».


Abbiamo poi avuto la gioia di accogliere don Pasqualino Di Dio, Coordinatore Nazionale del Coordinamento della Divina Misericordia e fondatore della Piccola Casa della Misericordia a Gela (Caltanissetta). Nella seconda Messa del mattino, ci ha ricordato che «la vita è troppo breve per sprecarla in nervosismo, vendetta, preoccupazione... Abbiamo solo questa vita per rendere felice Dio. Lui invece avrà tutta l'eternità per renderci felici». Occorre allora che ci ricordiamo di «dover nutrire la fiducia e non la paura». Ogni qualvolta scopriamo la nostra paura, riproponiamo a noi stessi l’abbraccio del Padre, la sua supplica. Non siamo ciò che gli altri pensano di noi o ciò che i nostri pensieri inficiati dal male dicono. Siamo «figli immensamente amati da Lui».



Al termine della celebrazione eucaristica don Pasqualino ha presieduto la preghiera di consolazione e guarigione davanti al SS. Sacramento. Invocando lo Spirito Santo, chinati davanti a Gesù Eucarestia, i tanti fedeli presenti hanno potuto fare esperienza dell’amore sanante di Dio. In quel momento non occorreva più aver paura, si poteva contemplare il volto di Dio nello splendore dell’Eucarestia. Bastava solo togliersi i sandali come Mosè davanti al roveto ardente (cfr. Es 3,5). Per avvicinarsi spogli di tutto a questo grande “spettacolo” della gloria di Dio. Che tergeva tante lacrime e guariva le ferite più profonde.



A Colui che, durante la catechesi pomeridiana, abbiamo contemplato come Buon Samaritano, abbiamo chiesto di avere pietà di noi. Di soccorrerci, di raggiungere la nostra tenebra, di caricarci sulla sua cavalcatura e di condurci in salvo (Lc 10,25-37).
Chi sperimenta però la salvezza operata da Cristo, è chiamato a diventare araldo di questa misericordia. E dispensatore dei benefici dell’amore del Padre. Don Pasqualino ci ha infatti incoraggiati ad andare verso il fratello, a diventare – così come richiedeva la parabola – anche noi “buon samaritani”. Mettendo a tacere il “Caino” che in noi grida vendetta, odio, invidia. E sperimentando che «Dio è amore» (1Gv 4,8). Per iniziare un viaggio che porta verso l’eternità noi e chi ci sta accanto.


La Cittadella si è così mostrata come “casa della misericordia”. Sono stati tanti i pellegrini che durante questo ritiro in preparazione alla Pasqua, si sono accostati al Sacramento della Riconciliazione. Sperimentando concretamente quella misericordia annunciata dal Vangelo.
Come Chiesa e come comunità di fedeli abbiamo sperimentato di essere chiamati a «rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo» (Is 58,6). Perché questo è ciò che Dio vuole da noi. Come ci suggerisce don Tonino Bello, è necessario “accogliere il fratello con tutti i suoi bagagli, senza considerarlo un rivale o un possibile concorrente”.


La conclusione di questa giornata, attraverso la Via Matris ha ricordato ai tanti pellegrini presenti che da soli non è possibile muovere questi passi di guarigione. È necessaria la presenza della Madre, che seguendo il cammino doloroso del Figlio, è stata poi assunta nella gloria.


Chi meglio di Maria può comprendere i nostri dolori? Chi meglio di Maria può insegnarci a perdonare? Chi meglio di Maria può portarci sotto la croce del Figlio, per attingere tutta la misericordia di cui abbiamo bisogno?
Ripercorrere per i viali della Cittadella i dolori di Maria ci ha riportati alla concretezza della vita. E ci ha aperti alla speranza, secondo l’invito di questo anno giubilare.


Il “Servo del Signore” consegna la sua vita e narra dalla croce il suo amore sconfinato. Stende le braccia fino all’estremo. Per raccogliere i tanti figli di Dio, dispersi fino agli ultimi confini della terra. E gridando così a ciascun uomo, schiavo o libero, sano o malato, l’abbandono fiducioso tra le braccia del Padre.
La “Serva del Signore” consegna pure la sua vita. Rimanendo ai piedi della croce. Continua a generare vita, poiché non si ferma al dolore. Ma crede nell’amore e accoglie. Accoglie sempre. Perché la terra si popoli di figli che scelgono il Calvario. Non come loro dimora, ma come via per la gioia eterna.
«Santa Maria, donna dell’ultima ora, quando giungerà per noi la grande sera e il sole si spegnerà nei barlumi del crepuscolo, mettiti accanto a noi perché possiamo affrontare la notte. È una esperienza che hai già fatto con Gesù, quando alla sua morte il sole si eclissò e si fece gran buio su tutta la terra. Questa esperienza, ripetila con noi. Piàntati sotto la nostra croce e sorvegliaci nell’ora delle tenebre» (don Tonino Bello).
